×

I 4 motivi per cui l’aumento dell’Iva penalizzerà di più le donne.

di Giovanna Badalassi | 18 Aprile 2019

I 4 motivi per cui l’aumento dell’Iva penalizzerà di più le donne.

Photo by Jp Valery on Unsplash

Non so se anche voi avete questa impressione, ma oramai le sorprese governative hanno una cadenza quotidiana, e ci tocca spesso rincorrere le notizie con affanno. Quella di ieri/oggi, per dire, riguarda il prossimo aumento dell’Iva e la presa di coscienza dell’effetto devastante che questo potrebbe avere. Si tratterebbe infatti di una tassa media di 538 euro in più a famiglia, che potrebbe arrivare fino a 900 euro, alcuni stimano addirittura 1.200.

Se qualcuno come ad esempio il Sole 24 ore ha già provato a fare delle simulazioni su come tale aumento inciderebbe su varie categorie di lavoratori e di famiglie, e se pare che anche i tecnici del Ministero siano all’opera per strutturare le aliquote in modo da penalizzare il meno possibile le fasce di reddito più disagiate, state tranquille che c’è una simulazione che non troverete, e che ci riguarda da vicino: quella del diverso impatto dell’IVA sulle donne e sugli uomini.

Provate ad indovinare chi ne esce peggio.

In letteratura studi sul diverso impatto dell’Iva su donne e uomini sono già stati condotti in diversi paesi e da parte di diversi organismi internazionali. Il report più recente e “vicino” a noi è quello promosso da FEMM, il Comitato sui diritti delle donne e la parità di Genere del Parlamento Europeo: “Gender Equality and Taxation in the European Union”. Rispetto all’impatto dell’IVA sulle scelte di consumo e di vita delle donne, questo rapporto individua quindi alcuni punti fondamentali, che partono dall’assunto che le donne e gli uomini sono diversi per lavoro, condizione economica e scelte di consumo. L’impatto dell’aumento dell’IVA produce quindi un effetto diverso con, ca va sans dire, una maggiore penalizzazione per le donne, soprattutto quelle più indigenti, sotto o male occupate e sole.

Vediamoli:

1. Le donne sono più povere degli uomini e hanno redditi più bassi

Basti solo ricordare, a tale proposito, che la ricchezza individuale delle donne è più bassa di quella maschile del 25%. Questo fa sì che se l’IVA aumenta le donne che lavorano spenderanno una percentuale più elevata del loro reddito in consumi rispetto alle persone, soprattutto uomini, che appartengono ai gruppi con reddito più elevato. Se le donne sono poi capofamiglia sole e con figli a carico la penalizzazione, ovviamente, aumenta considerevolmente. E le famiglie monogenitori con capofamiglia donna si sa, sono ben più di quelle dove il capofamiglia è un uomo: 2,2 milioni contro 500 mila (Istat, 2017).

2. Le donne sono le principali responsabili degli acquisti familiari di beni e servizi.

Le donne, secondo il Censis, sono responsabili dell’66,5% della spesa familiare, questo dato, applicato ai consumi delle famiglie, arriva grosso modo a 600 miliardi di euro, soldi che le donne devono decidere ogni giorno come spendere. Un potere di spesa enorme che implica anche il dover scegliere e selezionare i beni da comprare con il migliore rapporto qualità/prezzo. Quindi se i prezzi aumentano a seguito dell’aumento dell’Iva e per molti diventerà necessario applicare delle massicce  strategie di risparmio, chi immaginate che dovrà saltare da un mercato all’altro per approfittare delle promozioni, memorizzare prezzi, compararli ecc? E questa sfinente attività di ufficio acquisti familiare, secondo voi, saranno costrette a farla più le donne abbienti o quelle con un reddito individuale o familiare basso? Ecco.

3. Le donne consumano prodotti diversi dagli uomini che costano spesso, in proporzione, di più

Si sa, le donne spendono ad esempio di più degli uomini in abbigliamento, cosmetici, prodotti per la casa. Se l’IVA aumenta più per alcuni prodotti che per gli altri occorre quindi chiedersi chi compra quei prodotti. Certo, gli uomini, dato che fumano e bevono più delle donne saranno ad esempio maggiormente colpiti dall’aumento dell’IVA su tali prodotti, ma di sicuro non si può dire che sia accettabile che ad esempio gli assorbenti, che possiamo definire beni di prima necessità abbiano l’aliquota Iva più alta al 22%. La campagna per abbassare l’IVA sugli assorbenti per le donne, detta “la Tampon Tax” ha avuto un qualche successo in altri paesi (vedi ad esempio in Australia) ma, chissà come mai, non in Italia.

Oltre a questa “anomalia” altri studi hanno fatto poi ancora conoscere la “Pink Tax” cioè beni che, se destinati alle donne, costano di più. Così. Per strategie di marketing aziendali che hanno capito che le donne sono disposte a spendere più degli uomini per certi prodotti. E’ questo il caso degli shampoo per donna, che arrivano a costare anche il 48% in più di quelli dedicati agli uomini, dei jeans per donna, che costano il 10% in più, ma anche le biciclette (+6%), e i rasoi: se sono “rosa” costano il 4,6% in più. Quindi, visto che questi prodotti sono già più cari in partenza, l’aumento dell’IVA su questi, ad esempio, avrebbe un impatto proporzionalmente maggiore per le donne.

Di nuovo, anche in questo caso,  le donne abbienti probabilmente non se ne accorgeranno neppure dell’aumento dell’IVA. quelle più disagiate dovranno invece contare molto bene quanto possono permettersi di spendere.

4. Le donne con i redditi più bassi dovranno cucinare di più per cercare di spendere di meno nell’acquisto di cibi e saranno incentivate a lavorare di meno per stare di più in casa

Per quanto molti siano convinti che oramai anche gli uomini si diano da fare in cucina, sono i numeri a richiamarci ancora alla realtà. Le donne over 15 in media dedicano alla sola preparazione del cibo 1 h e 45 minuti in un giorno medio settimanale, mentre gli uomini 25 minuti. Il 45% degli uomini mette quindi mediamente i piedi in cucina, contro l’85,6% delle donne (Istat, 2013).

Gli studi hanno quindi dimostrato che per le donne, a fronte di tale impegno quotidiano, può diventare più conveniente, in caso di aumento dell’Iva, ridurre il proprio impegno sul lavoro, soprattutto se hanno un reddito da lavoro molto, ma molto basso e aumentare invece quello per l’autoproduzione di cibo (che sarebbe, banalmente: cucinare partendo dagli ingredienti base invece di comprare dal rosticciere o i surgelati, che costano di più). In questo modo le donne si sposterebbero dal lavoro pagato al lavoro non pagato e familiare, con un effetto economico regressivo generale.

Questo tipo di impatto, tra l’altro, è già stato osservato in Svezia nel 1991 dove hanno visto, ad esempio, che l’aumento dell’Iva su servizi che riguardano lavori connessi al lavoro domestico (servizi di pulizia o servizi al ristorante) ha reso più conveniente per queste lavoratrici rimanere a casa a fare le pulizie e a cucinare per la propria famiglia piuttosto che comprare sul mercato almeno in parte gli stessi servizi per poter andare a fare un lavoro retribuito che era poi lo stesso che facevano a casa.

E quindi, insomma, si capisce bene

anche in questo caso che dopo la Flat tax, che pare vogliano introdurre ad ogni costo e che scoraggerebbe soprattutto il lavoro delle donne, dopo la quota 100 e il reddito di cittadinanza, misure delle quali si avvantaggiano soprattutto gli uomini a causa dei criteri di accesso che sono stati decisi, non si può certo dire che manchi la coerenza: non esce un provvedimento economico in favore delle donne manco per sbaglio.