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Il corpo giusto per un lavoro vincente

di Giovanna Badalassi | 1 Ottobre 2020

Succede, ciclicamente, che una qualche folata social ci porti a parlare del corpo della donna, tema mai abbastanza discusso e perennemente irrisolto. L’ultima occasione ci viene offerta da Vanessa Incontrada, la cui bellissima foto nuda sulla copertina di Vanity Fair ci offre lo spunto per ragionare sul rapporto tra corpo e lavoro. La campagna di bodyshaming alla quale è stata sottoposta Vanessa Incontrada, e alla quale ha reagito esibendo il proprio corpo “del reato”, è infatti strettamente legata alla sua dimensione professionale: la sventurata ha osato presentarsi sul posto di lavoro con una forma fisica certo magnifica ma non conforme alle aspettative standard per il suo  mestiere.

Dobbiamo allora domandarci: esiste un corpo più “giusto” di altri per lavorare?

La pressione sociale per la taglia 42 fino a che punto e in che misura ci riguarda tutte realmente, al netto del nostro tasso di autosuggestione e di bassa autostima?

Non avendo dati e statistiche, ragioniamo sulla nostra esperienza quotidiana e osserviamo la piramide dei lavori: nelle professioni definite di bassa qualifica non avere la taglia 42 non porta ad una significativa pressione sociale: domestiche e operaie, ad esempio, possono tenersi la propria pancetta senza temere particolari conseguenze di body shaming. Fare mestieri invisibili, va constatato con amarezza, qualche vantaggio in effetti lo porta. Salendo nei vari livelli della gerarchia dei mestieri, ne incontriamo molti altri che possiamo praticare senza alcun giudizio universale sulla nostra cellulite, ad esempio i mestieri di cura, sia sociale che sanitaria: scollinate le badanti o le baby sitter, anche chi si prende cura delle persone con un più elevato livello di qualifica può lavorare serenamente dalla taglia 46 a salire, tipo le infermiere o le maestre di asilo. Anche i mestieri ad elevato contenuto intellettuale non esigono la 42: credo nessuno abbia mai scelto una dottoressa, una psicologa, un’avvocata o una dentista perché fiera detentrice di una taglia da modella. Pure all’Università le professoresse si possono concedere qualche bignè in più. Certo, come da tutte le parti, chi punta sul fascino gioca un altro campionato, ma la pressione violenta del body shaming per le over 42 è un’altra cosa. Nei mestieri molto tecnici e molto scientifici, paradossalmente, essere belle e magre è poi quasi un ostacolo: se non si vuole giocare la carta sexy, bisogna faticare il doppio per essere prese sul serio.

Potrei continuare con molti altri mestieri, ma credo di aver reso l’idea.

Quindi non è così vero che tutte le donne subiscono oggettivamente la pressione sociale della taglia 42, ma è sicuro che ne sono parecchio vittime quelle che fanno mestieri ritenuti “vincenti”, o che vorrebbero farli.

Mestieri che, guarda caso, hanno a che fare con i soldi, il potere, il lusso e la visibilità a questi connessa.

Lavorare con il corpo e con l’immagine, che sia una modella, un’attrice o una showgirl, significa infatti lavorare in un ambiente competitivo dove girano molti soldi e dove vige la regola ferrea di sottoporre il proprio corpo ad un esame collettivo rispetto ad un determinato standard, un gioco crudelissimo che ha distrutto tante giovani.

Se guardiamo ancora ai settori economici davvero competitivi e nei quali girano più soldi, ad esempio l’alta finanza o le multinazionali globali, e osserviamo le loro donne manager, ne troveremo ancora ben poche con un filo di grasso superfluo.

Più i mestieri sono vicini ai soldi e dunque al potere, variamente declinato, sia esso mediatico, industriale o finanziario, maggiore è l’aspettativa professionale e sociale per la taglia 42 e connessi fianchi stretti, poca vita, seno piccolo, meglio se con mascella quadrata, spalle larghe e gambe lunghe.

Una regola che vale anche per tutte le attività al servizio del potere: si può essere serenamente commesse grassocce presso un fruttivendolo ma è richiesto fisico da indossatrice per le boutique di lusso.

Magari fosse solo una nostra impressione personale, invece pure le ricerche lo confermano: chi è bello, uomo o donna, trova lavori migliori e guadagna di più. Storia vecchia come l’umanità, quella dei vantaggi della bellezza, e fin qui non c’è nulla di nuovo.

La questione sulla quale stiamo ragionando è però sul motivo per cui definiamo bello un tipo di corpo femminile che le nostre nonne avrebbero giudicato rachitico e pericolosamente denutrito.

Quando è successo che la taglia 42 è diventata il nuovo modello standard di bellezza vincente sul lavoro e, dunque, nella vita?

I canoni della bellezza, si sa, sono cambiati molto nella storia ma hanno pur sempre mostrato una adeguata riserva di grasso, simbolo di opulenza, fino al dopoguerra: negli anni 60 le maggiorate erano ancora le donne ideali nell’immaginario collettivo mentre le magre si sentivano inadeguate e fuori posto (ironia della sorte!).

Da allora il cambiamento è avvenuto molto gradualmente, ma è indubbio che a partire dagli anni 70 la moda delle donne magre, iniziata grazie ad alcune icone, da Audrey Hepburn a Twiggy, è emersa in concomitanza con l’ingresso in massa delle donne nel mondo del lavoro. Donne che non si sono accontentate di fare solo mestieri di bassa qualifica, ma hanno temerariamente cercato anche di fare carriera all’interno di ambienti professionali fino a quel momento completamente maschili. Donne che, per la prima volta nella storia, hanno voluto essere competitive con gli uomini nel lavoro retribuito.

E’ nato così, a nostro parere, il bisogno di un diverso corpo “vincente”, dunque bello, più adatto a questo nuovo contesto.

Competere nel lavoro degli uomini, per le donne, ha significato infatti andare in battaglia, essere scattanti, veloci, tutte un nervo, con le spalle larghe di nome e di fatto, anche con un filo di rabbia ben nascosta e con una autodisciplina di ferro, a partire dal controllo del proprio corpo.

Si è passati così dall’ideale classico del corpo materno e maturo della Venere di Botticelli, che con gli occhi di oggi è una donna-pera con spalle strette, trippetta e una quantità insopportabile di cosce, ad un ideale di donna-guerriera adolescente che, tra l’altro, deresponsabilizza pure la sessualità di tutte e tutti rispetto alle sue conseguenze naturali.

Se ci pensate è davvero dura essere credibili come faine della produttività se ci troviamo avvolte in un meraviglioso corpo burroso e rilassato che ispira sorrisi, gioia, serenità ma soprattutto che ispira… orrore! Bambini!!

Un corpo femminile maturo e accogliente sprigiona infatti un solo messaggio subliminale: ricordati che devi procreare!

Non esattamente il messaggio più apprezzato da un sistema economico oramai pervasivo e totalizzante che ha come unico fine la parola “profitto” e che non ammette distrazioni familiari da questo obiettivo finale, né per gli uomini né per le donne.

Negli anni quindi si è venuto a modificare l’ideale sociale del corpo femminile “vincente”.

Non più donna in grado di fare tanti bambini, ma una donna che esprime una bellezza guerriera e androgina, Un modello talmente di successo che si è poi allargato a ogni altra dimensione sociale, ponendosi come parametro unico di riferimento per ogni altro genere di femminilità, anche di chi magari non ha alcuna intenzione di fare carriera ma mira solo a sposare un buon partito e fare tanti bambini.

Quindi, insomma, gira che ti rigira torniamo sempre lì, ai soldi e a come questi ci condizionano la vita e pure il corpo.

Che dobbiamo fare? Niente. Ciascuna ha la propria strada, le proprie scelte, ambizioni e desideri che deve ogni giorno confrontare con limiti oggettivi, oltre che con gli ostacoli che ci pongono gli altri.

Da sole infatti possiamo solo adattarci al sistema.

Complimentiamoci quindi con Vanessa Incontrada per la sua scelta di resistenza e autostima conquistata, ma ricordiamoci che i nostri corpi, magri o in carne, saranno davvero liberi e belli così come sono solo quando l’economia diventerà davvero al servizio delle persone e non al loro comando. Quando, cioè, riusciremo a darci regole nuove e obiettivi diversi dal profitto predatorio.

Certo, se ci impegnassimo un po’ di più tutte assieme nel dare una spintarella a questo cambiamento, invece che aspettare che avvenga da sé per inerzia, magari faremmo prima e potremmo lavorare e vivere un po’ meglio.

Cosa fondamentale, poi, potremmo abbuffarci finalmente di dolci senza più sensi di colpa. Non è una meravigliosa motivazione, questa?