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Piani, Bilanci e Certificazioni di genere? Facciamo un po’ di ordine.

di Giovanna Badalassi | 16 Luglio 2023

Certificazione di genere

Nonostante gli inciampi che ci regala ogni giorno il dibattito pubblico in materia di parità di genere, esiste per fortuna un impegno quotidiano portato avanti da istituzioni, enti locali, aziende e ONG che ci offre invece qualche soddisfazione e motivo di speranza.

Ferve infatti il dibattito, certo un po’ da addetti ai lavori, sui numerosi strumenti tecnici a disposizione che supportano la parità di genere al punto che, ogni tanto, si viene a creare una certa confusione terminologica e concettuale.

Proviamo quindi a fare un po’ di chiarezza sugli strumenti di monitoraggio, analisi e valutazione che si possono utilizzare nel settore pubblico e privato per misurare il livello di parità raggiunta e ragionare su possibili obiettivi di miglioramento.

STRUMENTI DI PARITA’ PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

La Costituzione dice chiaramente all’Art.3 che non solo siamo tutti uguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso (ecc) ma anche che la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli economici e sociali che ostacolano il pieno sviluppo della persona e la partecipazione politica, sociale ed economica. Sulla base di questo impegno costituzionale si appoggia la normativa quadro che ha riorganizzato tutte le disposizioni precedenti in materia, il Codice per le pari opportunità tra uomo e donna, il D.Lgs. 196/2000.

Per quanto riguarda la parità di genere riferita ai dipendenti pubblici il riferimento è l’articolo 48 secondo il quale tutte le amministrazioni pubbliche di ogni ordine e grado devono predisporre i

Piani di azioni positive (PAP)  

tendenti ad assicurare, nel loro ambito rispettivo, la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne”. Se le amministrazioni hanno più di 50 dipendenti, il PAP è incluso all’interno del PIAO, il Piano Integrato di Attività e Organizzazione.

Si tratta di piani triennali ma per la verità poche amministrazioni li fanno, benché obbligatori poiché il legislatore non ha posto sanzioni rilevanti, limitandosi solo a prevedere un blocco di turnover del personale in assenza del piano.

Un altro strumento per gli enti pubblici, all’interno del quale di solito si cita anche il PAP, è il

Bilancio di genere,

del quale abbiamo parlato diffusamente qui. Il Bilancio di genere adotta il criterio di gender mainstreaming con riferimento alla spesa pubblica, della quale valuta il diverso impatto sulle donne e sugli uomini di (ove possibile) tutte le voci di bilancio. Il Bilancio di Genere, quindi, si occupa anche dei (e delle) dipendenti pubblici in una sezione apposita, ma il suo focus principale è quello di esaminare soprattutto l’impatto della spesa pubblica, e dunque delle politiche, sui cittadini e le cittadine. In via subordinata può analizzare l’impatto di genere sui fornitori nelle sue procedure di acquisto (Gender procurement) e altri soggetti stakeholder. Nel caso degli enti pubblici intermedi o di secondo livello che non si riferiscono direttamente alla cittadinanza, come ad esempio le Province, le Camere di Commercio o gli Enti Pubblici di Ricerca, il Bilancio di genere valuta invece l’impatto sulle donne e gli uomini nell’ambito della mappa degli stakeholder di riferimento. Ad esempio il Bilancio di genere delle Università si rivolge agli studenti, ricercatori e professori, quello delle ASL ai (e alle) pazienti ecc. Come abbiamo raccontato, a partire dai primi anni 2000 il Bilancio di genere è stato sperimentato da Comuni, Province, Regioni, Università, ASL, Camere di Commercio, fino ad arrivare al Bilancio di Genere Nazionale. Anche la parte normativa ha seguito lo stesso tipo di percorso: ci sono state 11 leggi regionali sulle pari opportunità che hanno incluso il Bilancio di genere tra il 2005 e il 2010 fino ad arrivare alla normativa che supporta il Bilancio di Genere dello Stato: la Legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Finanziaria 2010), il DCPM del 2017 e le Circolari annuali della Ragioneria dello Stato.

Per tutte le altre amministrazioni pubbliche il Decreto Brunetta ha previsto la consegna del Bilancio di Genere il 30 giugno di ogni anno assieme alla Relazione sulla performance mentre due direttive del Ministro della Pubblica Amministrazione e delle Ministro per le Pari Opportunità, la Direttiva del 4 marzo 2011 e la Direttiva n. 2 del 2019 citano la redazione del Bilancio di Genere tra i compiti del CUG – Il Comitato Unico di Garanzia.

Nonostante le indicazioni normative, anche in questo caso siamo nella stessa situazione del PAP: non essendo prevista una sanzione, pure il Bilancio di Genere non è praticato nel modo massivo che ci si aspetterebbe a giudicare dalle norme.

Un terzo strumento per le amministrazioni pubbliche, che integra aspetti sia del Piano delle Azioni Positive che del Bilancio di genere, è il

Gender Equality Plan o Piano per l’Uguaglianza di Genere.

Dopo anni di sperimentazioni a livello accademico, Il Gender Equality Plan è stato reso obbligatorio dal programma europeo per la ricerca “Horizon Europe”. Per questo motivo tutte le Università, enti di ricerca e qualsiasi altro soggetto con i requisiti per partecipare al programma sono tenuti a redigere un proprio Gender Equality Plan secondo le linee guida date dalla Commissione Europea.

Il Gender Equality Plan ha parecchio in comune con il Piano delle Azioni Positive, in quanto si rivolge prevalentemente alla dimensione di parità interna alle risorse umane dell’organizzazione, ma include anche il Bilancio di genere come strumento di monitoraggio, il che porta ad ampliarne la dimensione di genere anche sugli stakeholder esterni.

In Italia il mondo accademico e della ricerca è in prima linea su questo tema, anche perché, secondo le linee guida del Ministero dell’Università e della Ricerca, le risorse del PNRR per la ricerca (Misura 4 – Componente 2) sono accessibili solo per soggetti che si siano dotati sia di un Gender Equality Plan sia di un Bilancio di genere.

STRUMENTI DI PARITÁ PER LE AZIENDE 

La promozione delle pari opportunità nelle aziende nasce in Italia in concomitanza con l’affermarsi delle strategie di gestione delle risorse umane ispirate ai criteri di Diversity Management e, ovviamente, nell’ambito del confronto con le rappresentanze sindacali propria della contrattazione collettiva.

Negli anni la normativa nazionale ha prodotto una serie di norme, adempimenti, programmi di finanziamento e progetti per stimolare il sistema produttivo ad una maggiore attenzione alla parità di genere.

Ad esempio, negli anni 90 i fondi della Legge 125/1991 hanno finanziato numerose Azioni Positive nelle Aziende, mentre più di recente possiamo ricordare i

Piani di Welfare Aziendale

che le Aziende sono tenute a redigere per attivare il Welfare aziendale nell’ambito della contrattazione collettiva, e il

Rapporto periodico sulla situazione del personale maschile e femminile

che le aziende con più di 50 dipendenti, sono tenute ad inviare ogni due anni al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, secondo una procedura descritta dall’art. 46 del D.Lgs 198/2006

Una novità importante introdotta dal PNRR e disciplinata dalla legge n. 162 del 2021 (legge Gribaudo) e dalla legge n. 234 del 2021 (legge Bilancio 2022) è certamente quella della

Certificazione di genere,

per la quale il riferimento principale anche se non esclusivo è la prassi UNI/Pdr 125:2002 che ne stabilisce le modalità per conseguirla attraverso il sistema degli Organismi di Certificazione accreditati.

La Certificazione di genere non è obbligatoria, ma è richiesta alle aziende che vogliono avere degli sgravi contributivi ex L. 162/2021.

Il PNRR destina alla Certificazione di genere 10 milioni di contributi “per le piccole e medie imprese e microimprese destinati sia ai servizi di assistenza tecnica e di accompagnamento alla certificazione, sia alla copertura dei costi della certificazione”

Questo strumento sta riscuotendo un certo interesse da parte delle aziende, anche perché può dare dei vantaggi competitivi importanti.

Il nuovo Codice degli appalti pubblici approvato con D.Lgs. 36/2023 prevede infatti all’art. 108 comma 7 che le stazioni “prevedano un “maggior punteggio da attribuire alle imprese che attestano, anche a mezzo di autocertificazione, il possesso dei requisiti di cui all’articolo 46-bis del d.lgs. 198/2006” (certificazione parità di genere).”

E’ importante ricordare che stiamo parlando di aziende. Come ci spiega Daniela Carlà di NoiReteDonne “La certificazione di genere così come definita a partire dalla prassi UNI/Pdr 125:2002 non è utilmente applicabile alle pubbliche amministrazioni; confondere gli strumenti a disposizione con quelli riservati alle aziende non giova. È inoltre importante distinguere con chiarezza gli obblighi di legge rispetto all’impegno per promuovere la parità di genere in azienda anche attraverso riconoscimenti premiali. C’è effettivamente bisogno di approfondire meglio questi aspetti, come noi di NoiReteDonne  abbiamo già fatto e come faremo ancora prossimamente”.

Se la Certificazione di genere riguarda la dimensione interna delle aziende relativamente alle risorse umane ed è uno strumento volontario, le aziende quotate, sia private che pubbliche, con più di 250 dipendenti (a partire dal 2024 tutte le quotate) sono invece obbligate anche a redigere il

Bilancio di sostenibilità,

introdotto nel nostro ordinamento dal D.Lgs 254/2016 che ha recepito la Direttiva Europea Nr. 2014/95/UE e poi aggiornato e integrato con la Direttiva europea N2 2022/2464/UE sul Corporate Sustainability Reporting.

Il Bilancio di sostenibilità deve rendicontare rispetto ai criteri ESG (Enviroment, Social, Governance), e adotta quindi una prospettiva sia interna all’azienda che esterna rispetto alla sua mappa degli stakeholders.

Poiché la parità di genere è un principio rilevante all’interno degli ESG, il GRI, il Global Reporting Initiative, ha prodotto una guida, “Embedding Gender in sustainability Reporting”, che spiega proprio come sviluppare la dimensione di genere nel Bilancio di sostenibilità. Quindi, quando si parla di bilancio di genere nelle aziende, in realtà ci si sta riferendo al

Bilancio di sostenibilità di genere,

che è quindi altro rispetto alla certificazione. Come già successo negli anni 2000 con i Bilanci sociali, antesignani del Bilancio di Sostenibilità e nati per le aziende ma poi adottati anche in ambito pubblico, anche alcuni enti pubblici  hanno pubblicato su iniziativa volontaria un proprio Bilancio di sostenibilità di genere a fini di comunicazione.

Fonte Foto: Foto di Shane Rounce su Unsplash