Le donne sono il motore della scuola italiana, infatti secondo dati del MIUR per l’anno scolastico 2021/ 2022 in Italia le docenti di ruolo in cattedra sono l’83% del totale. Si rileva una stragrande maggioranza di donne impiegate nei servizi di assistenza all’infanzia con il 99% di donne, percentuale che scende lievemente al 96% nelle scuole primarie, al 78% alle scuole secondarie di primo grado e al 66% per la scuola secondaria di secondo grado.
La situazione italiana riflette un trend che si verifica anche nei paesi dell’OCSE: in media il 70% degli insegnanti sono donne, con una sovrarappresentazione di donne soprattutto ai livelli di istruzione inferiori; nel 2019 in media l’84% degli insegnanti della scuola primaria nei paesi OCSE erano donne.
Le cose cambiano poi all’Università dove, secondo dati del 2021, le donne sono il 41,1% dei 73.493 docenti e ricercatori/ricercatrici. In particolare, in ambito universitario, si rileva una situazione di segregazione verticale: mano a mano che si sale nella scala gerarchica, le donne diminuiscono; nel 2021 il 49% dei/delle titolari di assegni di ricerca erano donne, tra i ricercatori e le ricercatrici universitarie sono il 46%, il 41% di professori e professoresse associate, e sono solo il 26% tra i professori e le professoresse ordinari.
Rimane ancora scarsa la presenza delle donne ricercatrici e docenti nelle aree STEM, che si attesta al 36,5% in generale, con percentuali via via più basse mano a mano che si sale nella gerarchia accademica: sono il 42% dei/delle titolari di assegni di ricerca, il 41% dei ricercatori e delle ricercatrici universitarie, il 37% di professori e professoresse associate, e il 22% dei professori e delle professoresse ordinarie.
La significativa presenza delle donne nella scuola – fatta eccezione per l’università – ne fa un settore segregato orizzontalmente rispetto al genere, vale a dire un settore lavorativo in cui le donne sono la maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori; questo si può spiegare storicamente con il fatto che il mestiere di insegnante ha rappresentato nel nostro paese una via per l’emancipazione e l’affermazione dei diritti delle donne.
Soprattutto in passato, fare l’insegnante (per via del teorico impegno limitato in termini di ore) era un mestiere ritenuto conciliabile con le esigenze familiari, che in teoria non metteva in discussione il ruolo di accudimento tradizionalmente attribuito alle donne e che ne consentiva tuttavia l’emancipazione economica – ma fino ad un certo punto.
Nel nostro paese, infatti, secondo l’OCSE, “Gli stipendi medi effettivi degli/delle insegnanti corrispondono a solo il 69 % degli stipendi di altri lavoratori e lavoratrici con un livello di istruzione terziaria”; è per fortuna, sia in Europa che in Italia, praticamente nullo il divario di genere nei salari.
Un divario molto contenuto o inesistente e retribuzione basse rispetto ad altri lavori, scoraggiano ulteriormente gli uomini – che spesso sono ancora i principali breadwinner, dall’intraprendere una carriera nell’insegnamento, rafforzando quindi il processo di femminilizzazione di questo settore.
Gli stipendi bassi non favoriscono l’attrazione di talenti, e ci si chiede anche quante donne abbiano deciso di dedicarsi all’insegnamento per reale interesse e vocazione e quante invece per ripiego, in mancanza di alternative migliori.
Inoltre, in Italia, più che in altri paesi europei, c’è bisogno di una notevole anzianità di servizio per vedere aumentare il proprio stipendio, e di poco: secondo il rapporto Teachers’ and school heads’ salaries and allowances in Europe 2020/2021 in Italia “gli stipendi iniziali degli insegnanti possono aumentare di poco meno del 50% solo dopo 35 anni di servizio”, mentre in Irlanda, Cipro, Paesi Bassi e Polonia dopo 15 anni di servizio lo stipendio iniziale degli insegnanti può aumentare di più del 60%. Il fatto che manchi una progressione di carriera per gli/le insegnanti italiane, comporta, secondo l’OCSE, che un/una preside in Italia guadagni più del doppio dei docenti. Negli altri paesi europei, dove la progressione di carriera esiste, il gap negli stipendi è più contenuto.
Infine, la scuola italiana è caratterizzata da una significativa precarietà che comporta che nel nostro paese si diventi docenti di ruolo verso i 40 anni di età. Di conseguenza anche l’età dei docenti e delle docenti in Italia è maggiore che in altri paesi per esempio: in Italia il 60 % del personale docente della scuola secondaria superiore ha 50 anni o più, mentre la media dell’OCSE è solo del 40 %. In particolare, il 42% degli/delle insegnanti in Italia ha più di 54 anni, e solo il 3% ha meno di 34 anni. Queste percentuali rimangono pressoché invariate tra le insegnanti: il 3% ha meno di 34 anni, il 42% ha più di 54 anni, il 19% tra 35 e 44, ed il 37% tra 45 e 54 anni.
Anche per quanto riguarda l’università, l’età media dei docenti e delle docenti è piuttosto alta: l’età media dei professori e delle professoresse ordinari/e è di 58 anni sia per gli uomini che per le donne, e scende a 52 anni per professori e professoresse associate.
Sono decisamente più giovani i/le titolari di assegni di ricerca: l’età media in questo caso è di 34 anni per le donne e 33 anni per gli uomini.
La scuola è quindi un settore lavorativo altamente femminilizzato, con una età media piuttosto alta, e caratterizzato da condizioni di lavoro non particolarmente favorevoli: a questo si aggiunge il fatto che alla scuola, e quindi anche alle donne che ci lavorano viene chiesto moltissimo – basti pensare ai periodi di lockdown e di scuola a distanza dovuta alla pandemia – con risorse limitate.
Dati OCSE rivelano, infatti, che l’Italia investe il 4,2 % del suo PIL nell’istruzione dal livello primario a quello terziario, un dato inferiore alla media dell’OCSE del 5,1 % e che corrisponde a una spesa per studente di 11. 400 dollari, rispetto alla media dell’OCSE di 12.600 dollari; il 30 % delle risorse stanziate era destinato all’istruzione primaria, il 16 % all’istruzione secondaria inferiore, il 30 % all’istruzione secondaria superiore e post-secondaria combinati ed il 24 % ai percorsi di laurea triennale, laurea specialistica e dottorato o equivalenti.
Se, nel periodo 2019- 2020, come conseguenza della pandemia, in media nei paesi dell’OCSE la spesa per gli istituti di istruzione dal livello primario a quello terziario per studente a tempo pieno è aumentata dello 0,4 %, in Italia questa spesa ha visto una diminuzione dell’1,3 %.
La femminilizzazione della scuola può inoltre avere conseguenze inaspettate su studenti e studentesse: la scarsa presenza di docenti uomini in generale, e soprattutto nei servizi di assistenza all’infanzia e alle scuole primarie, non consente di offrire modelli di ruolo di uomini in posizioni lavorative caratterizzate dalla cura e dall’accudimento. Inoltre, una maggiore presenza di docenti uomini alle superiori e poi all’università, dove l’aspetto di cura ed accudimento diminuisce ed aumenta quello legato a livelli maggiori di competenza e conoscenze, favorisce l’associazione tra sapere formale, “alto” e gli uomini da un lato, e l’associazione tra le donne e la cura della persona, prima che dell’intelletto, dall’altro.
A voler cogliere un lato potenzialmete positivo della femminilizzazione della scuola, bisogna osservare che le donne come insegnanti hanno in teoria un grande potere per cambiare la scuola e la società: possono formare ed influenzare i cittadini e le cittadine di domani e, visto che qui parliamo di donne, e di femminismo, contribuire alla promozione dell’uguaglianza di genere.
Tuttavia, bisogna innanzitutto essere consapevoli di questo potere, e soprattutto bisogna considerare che le donne non sono un gruppo omogeneo: non tutte le donne, e dunque non tutte le insegnanti trasmettono conoscenze e punti di vista a favore delle donne, che mettono in discussione gli stereotipi di genere o che promuovono una cittadinanza consapevole.