×

La Fast Fashion 10 anni dopo Rana Plaza

di Federica Gentile | 20 Aprile 2023

10 anni fa, il 20 aprile 2013, crollava il Rana Plana, un edificio a Dhaka, in Bangladesh, che ospitava numerosi laboratori che producono abiti per i grandi marchi di Fast fashion (come per esempio Nike, H&M, Zara etc.).

Nel crollo morirono più di mille persone e da allora Rana Plaza è diventato il simbolo di molteplici problemi associati alla Fast fashion: il costo (troppo basso) di un capo di abbigliamento di questi marchi nasconde costi ambientali e umani molto elevati. La produzione di vestiti infatti richiede una quantità notevole di risorse naturali: secondo le Nazioni Unite produrre un paio di jeans richiede circa 3.700 litri d’acqua e ogni secondo l’equivalente di un carico di un camion pieno di scarti tessili e vestiti mai indossati finisce in una discarica o viene bruciato.

Dal punto di vista dei costi umani, gran parte di coloro che lavorano nell’industria tessile sono donne che lavorano e vivono nel Sud del mondo, e sono sottopagate e sfruttate. Nel corso degli anni in Corea del Sud e in Cambogia, ci sono stati movimenti di lavoratori e lavoratrici del settore tessile che hanno lottato per condizioni di lavoro che non siano disumane e stipendi adeguati, ma siccome la produzione di abbigliamento è estremamente mobile e si sposta facilmente dove il lavoro costa poco e le leggi per la protezione ambientale non sono rigorose come in Europa o negli Stati Uniti, tutto il processo diventa una dannosissima corsa al ribasso.

Barbara Ehrenreich e Annette Fuentes hanno sottolineato come i paesi poveri, per attrarre gli investimenti di multinazionali straniere, “pubblicizzino” – come farebbe uno sfruttatore con le sue prostitute – le loro donne come le lavoratrici ideali: sottomesse, gran lavoratrici e per natura più adatte a lavori di precisione e tediosi come cucire vestiti o mettere insieme microchip. Non solo, spesso le multinazionali – i cui enormi profitti sono possibili proprio grazie allo sfruttamento di queste lavoratrici – hanno utilizzato nel corso del tempo uno dei pilastri del femminismo, il diritto a lavorare fuori di casa, come giustificazione per le condizioni lavorative altrimenti inacettabili di chi lavora per loro: secondo questa narrativa, per quanto queste donne siano sfruttate, almeno non sono nei campi a spaccarsi la schiena, ed hanno accesso ad un lavoro che ne garantisce l’emancipazione.

In questo quadro già piuttosto deprimente, il Covid-19, e la conseguente cancellazione di contratti con laboratori nel Sud del mondo che lavorano per i grandi marchi di Fast Fashion, e ritardi nei pagamenti, hanno ulteriormente peggiorato le condizioni lavorative di lavoratori e lavoratrici, che in alcuni si sono trovati da un giorno all’altro senza lavoro.

I problemi legati alla Fast fashion ci dovrebbero spingere da un lato a riconsiderare le nostre abitudini di acquisto, quando e se possibile, ma anche a riflettere sul tema della solidarietà internazionale che dovrebbe legare chi cuce i nostri vestiti e noi che li compriamo e indossiamo. Chandra Mohanty, femminista marxista, offre una soluzione in chiave anticapitalista: “Dobbiamo lavorare a livello internazionale e dobbiamo impegnarci nella lotta anticapitalista” . Non possiamo più ignorare i costi elevatissimi della Fast fashion e del sistema capitalista per il nostro pianeta e per coloro che cuciono i nostri vestiti.

Foto: Cristine Enero su Unsplash