E’ con grande piacere che ospitiamo qui a Ladynomics un bell’articolo di Eleonora Pinzuti, carissima collega, formatrice e saggista, che ci ha fatto questo regalo prezioso. Sperando che questa riflessione venga molto letta e condivisa, così… magari le viene voglia di tornarci a trovare!
Ma perché mai nel nostro Paese la presenza delle donne nei ruoli apicali, siano essi dirigenziali, politici o sportivi, è sempre inferiore alle aspettative e ancora ben lontana da un paritario 50%? Questa è la domanda che, più frequentemente, mi viene posta.
Se proprio dovessi tirar fuori dalla borsetta una parola, un solo lemma che riassuma le ragioni di quanto avviene, dopo più di 200 anni di lotte (A vindication of the rights of the Women di Mary Wollstonecraft è del 1792), sceglierei questa:
Potere. Sembra semplice, nevvero? Non proprio.
Fu Stuart Hall a parlare di “natura genderdizzata del potere”, cioè del fatto che il potere (maschile) produce il genere e le forme di minorizzazione connesse che vanno ad influenzare il tessuto economico, politico e sociale. È insomma il potere (che genera gli stereotipi e le forme di esclusione) ad impedire, ancor oggi, alle donne di accedere paritariamente alle funzioni che ci spettano. Del resto, è sempre il potere a strutturare quelle modalità di prossimità ai ‘vantaggi’ che rendono tante donne ancora prone alle sue sé-duzioni, cioè alla capacità del potere di condurle a sé tramite “il premio” dell’adeguarsi alle norme sociali: si pensi per altro a quanto sia diffusa la misoginia introiettata e il maschilismo/machismo femminile.
Ma, purtroppo, per spiegare il perché le donne non siano ancora riuscite ad emanciparsi completamente, servono altre risposte (forse un milione!) che provo a riassumervi.
La minorizzazione della maggioranza
Secondo l’Istat in Italia al 1° gennaio 2019 le donne rappresentavano il 51,3% della popolazione e il 51,5% dell’elettorato. Le donne sono, seppur di poco, in maggioranza.
Allora perché parlare di una minoranza?
Perché per “minorizzazione” non si intende un dato numerico, bensì quella modalità discorso culturale (Foucault parlava di Ordine del discorso in un suo famoso libro) volta a privare un gruppo più o meno ampio di persone delle funzioni di soggetto auto-normato. Per fare un esempio, se reitero una narrazione che indica il femminile come meno abile nelle materie STEM e più portato all’accudimento, avrò dopo due decenni meno scienziate e più educatrici dell’infanzia. Attraverso questi racconti ‘tossici’ (si pensi alle fiabe, solo recentemente analizzate da una prospettiva di genere) la “cultura dominante” esercita il proprio potere su un numero amplissimo di persone, uomini e donne, indirizzandone le scelte.
Nello specifico, le donne sono “minorizzate” perché la nostra cultura, il nostro linguaggio, le nostre modalità di rappresentazione dei corpi, il nostro assetto storico-sociale sono ancora fortemente “maschili” e, peggio, maschiliste: il dato precipuo riguarda il femminicidio. Nel nostro paese ogni 72 ore (circa) una donna viene ammazzata da un uomo, in genere perché, semplicemente, rifiutato. Ma si pensi anche alla rappresentazione del corpo femminile, agli attacchi alla 194, all’hate speech contro figure pubbliche di donne e così via.
Ma perché le donne non si ribellano, chiede qualcuno?
Perché, come diceva Yourcenar “in genere le donne vogliono essere quel che sono” (cito a memoria)?
Io non lo credo: conosco una infinità di donne che aspirano ad essere molto di più di quel che sono costrette ad essere.
In realtà la questione si gioca su un altro piano: quella che io definisco
“la invisibilizzazione del dominio”.
Mi spiego meglio: il dominio, con i suoi stereotipi, il controllo culturale, le norme sociali, tanto più è diffuso tanto meno è percepito; in sostanza, il dominio, per funzionare, ha la necessità di non essere “rivelato”, altrimenti appena esposto rischia la dialettica sociale, cioè l’antagonismo. Inoltre, più si è immersi in una cultura tossica rispetto alle parità, più si produce la “abituazione” a quegli assunti.
Il modello (etero)patriarcale dominante, assume dunque, da elemento culturale, un assetto “naturale”: ecco perché per molti è “naturale” (cioè attiene alla natura) che la donna ancor oggi non faccia carriera e si occupi dei figli mentre l’uomo tende alla auto-realizzazione. In realtà questa ruolizzazione, cioè la netta separazione delle funzioni definite ‘maschili’ e ‘femminili’, è invece l’esito, tanto spesso, di un potere millenario che ha relegato le donne ad azioni di cura-riproduzione (eccettuati i casi di scelte individuali e consapevoli, ci mancherebbe).
Il soffitto di marmo (e non di cristallo): ecco il perché di fatica
Esiste una paradigma, una caratteristica comune a tutte le minoranze: quello di introiettare gli assunti auto-emarginanti della cultura dominante: nel nostro caso quelli del patriarcato e dell’eteropatriarcato, facendole proprie. Sottoposto/a all’indrottrinamento del proprio disvalore, il soggetto minoritario ne impara gli assunti in funzione auto-limitante (si pensi alla omofobia introiettata, e la si estenda alla misoginia). Per usare Freud, il soggetto minorizzato introietta il Super Io del dominatore. Del resto, il modello patriarcale ha dato, in svariati millenni, innumerovoli prove di feroce misoginia sparsa in fiumi di inchiostro: quell’inchiostro che le donne hanno diligentemente studiato (perché le donne, da quando studiano, studiano di più), sui banchi di scuola. In alcuni casi, la misoginia si è concretata in atti persecutori, quali la caccia alle streghe, per fare un esempio assai noto.
Ora, poiché il dominio culturale è detenuto storicamente dagli uomini, le donne introiettano senza avvedersene, fin dalla tenera infanzia, stereotipi, ruolizzazioni, doverizzazioni e minorizzazioni volte ad agevolare il lavorìo senza sosta del dominio: in sostanza le donne introiettano delle regole su come essere donne e su come comportarsi per essere donne a modo. Tanto che, se una donna per la propria carriera mette in second’ordine, che so, i figli, viene rappresentata come de-genere.
La de-generazione del femminile tocca tutti gli ambiti del controllo: da come ti vesti a come mangi, da come ti trucchi al perché non lo fai.
Ecco dunque perché genericamente le donne, oltre quelli che sono gli ostacoli sociali e di welfare, hanno maggiori difficoltà a proporsi, ad essere professionalmente ‘aggressive’, a prendere la parola in pubblico (c’è un interessante articolo di The Scientist a questo proposito) o a chiedere con azioni ben più decise la parità. Giocano contro le donne il disvalore introiettato che ancor oggi agisce da auto-modello e quella vicinanza affettiva, familiare, relazionale con gli uomini che induce il genere femminile a costanti, continue, sfiancanti e spesso controproducenti ma inevitabili mediazioni.
Per chiudere: che fare?
Chimanda Ngozi Adichie, nel suo libro edito da Einaudi Dovremmo essere tutti femministi, afferma “E poi facciamo un torto ben più grave alle femmine, perché insegniamo loro a prendersi cura dell’ego fragile dei maschi. Insegniamo alle femmine a restringersi, a farsi piccole”.
Purtroppo, ancor oggi, quando non v’è dubbio che la consapevolezza del problema ha raggiunto come non mai amplissimi strati della popolazione maschile e femminile (in tal senso l’uso dei social ha finanche qualche merito), servirebbero strategie trasformative a tutto tondo: dalle scuole agli ordini professionali, dai luoghi della politica alle aziende, dalle famiglie alle persone più mature.
Non solo perché la parità di genere è un aspetto “giusto e doveroso” del vivere civile, ma vieppiù perché il nostro Paese, se vuole davvero essere competitivo e salvarsi dal baratro, non può che puntare anche e decisamente sulle donne e sulla modifica di un orizzonte culturale che veda tutti i soggetti (uomini inclusi) consapevoli dei vantaggi delle parità.
Se vogliamo veramente rendere il nostro Paese un luogo dove la differenza è alla stregua di una ricchezza da valorizzare, dobbiamo davvero trovarle, queste differenze:
prima sconfiggerle nei loro aspetti deteriori. Poi puntarci tutto.
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