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La povertà di chi lavora

di Federica Gentile | 5 Settembre 2023

Quando si parla di povertà lo si fa spesso malamente. Ed è un gran peccato dato che nel mondo circa 648 milioni di persone vivono con meno di 2,15 dollari al giorno e metà della popolazione globale vive con meno di 6,85 dollari al giorno. In Europa invece una persona su 5 (il 21,7% della popolazione) era a rischio di povertà o esclusione sociale nel 2021, con 73 milioni di persone a rischio di povertà, e 27 milioni a grave rischio di deprivazione materiale. In Italia la percentuale di persone a rischio di povertà o esclusione sociale arriva invece al 25%, quindi sopra la media europea.

Al di là dei numeri, persistono alcuni miti sulla povertà e tra di essi c’è quello della presunta pigrizia delle persone povere come causa unica della loro povertà: se si è poveri/e lo si è solo perchè non si ha voglia di lavorare. Si può essere invece poveri e povere anche se si ha un lavoro: in Europa il 10% di tutti e tutte coloro che sono poveri/e ha un lavoro; in Italia si arriva all’11%.

Il problema non è quindi solo la mancanza di lavoro, ma la qualità del lavoro che non permette alle persone di uscire da una situazione di povertà; secondo l’ILO “Una decade di progresso nella diminuzione della povertà ha rallentato durante la crisi del Covid-19 e si stima che il rallentamento della crescita economica vorrà dire per molti lavoratori e lavoratrici accettare lavori di bassa qualità, poco pagati e con orari ridotti”. Al tempo stesso l’aumento del costo della vita spingerà sempre più persone in una situazione di povertà. Peraltro, bisogna anche sottolineare che l’accesso al lavoro, o meglio a lavori ben pagati, dipende poi da variabili come il livello di istruzione, ma anche il genere, l’origine etnica e la disabilità.

Le donne in particolare tendono a concentrarsi e rimanere bloccate in occupazioni che sono caratterizzate dallo sticky floor (=pavimento appiccicoso) vale a dire senza prospettive in termini di formazione e carriera e caratterizzati da stipendi bassi. Inoltre, per il maggiore carico di lavoro domestico e di cura che devono sostenere, tendono più degli uomini a ricorrere il part-time e a dover interrompere il proprio percorso lavorativo – a volte per anni.

Da dove nasce questa situazione? A quanto pare da scelte politiche sbagliate fatte negli anni ‘80. Infatti, se dal 1990 al 2020 – secondo dati OCSE relativi a 22 paesi europei – i salari sono aumentati (in Spagna del 6,2%, in Francia del 31,1%), l’Italia è l’unico paese europeo in cui sono diminuiti del 3%. Questo è dovuto al fatto che, secondo l’economista Francesco Saraceno, a fronte della sfide poste dalla globalizzazione, il nostro paese negli anni ‘80 ha deciso di puntare su un basso costo del lavoro invece di investire su una produzione di qualità, come ha fatto la Germania. Una bassa produttività del nostro paese, difficoltà a passare da lavori temporanei a lavori a tempo indeterminato, e un’economia sommersa piuttosto rilevante (stimata in 157 miliardi di euro) completano il quadro.

In Europa fortunatamente qualcosa si sta muovendo e con la risoluzione del 15 marzo 2023, il Parlamento europeo si è espresso a favore di una direttiva che renda obbligatorio per tutti gli stati membri un reddito minimo garantito. Nel nostro paese, se la direttiva venisse adotta, questo vorrebbe dire erogare assegni mensili che vanno da 550 a 875 euro al mese per coloro che rispondono ai requisiti previsti dalla direttiva.

Si tratta, nel caso ci fosse qualche dubbio, di un intervento decisamente più robusto di quelli previsti dal nostro governo, che sono inefficaci per garantire un’esistenza dignitosa alla persone povere.