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#MeToo alla carbonara

di Giovanna Badalassi | 3 Febbraio 2018

Una donna tiene un cartello con scritto #MeToo
Image by Mihai Surdu from Pixabay

E alla fine, dopo mesi che #Metoo fa fuoco e fiamme a livello mondiale, arriva la lettera delle 124 attrici italiche. Molto politically correct, solidale con chi si è esposta, denunciante di un sistema sbagliato, nessun nome, sostanzialmente indolore.
Che dire? Dipende da quanto si vuole alzare l’asticella delle aspettative. Le nostre erano molto basse. Certo, ci sarebbe piaciuto qualcosa di più, ma non è un caso se la famosa frase “il coraggio, uno, non se lo può dare” è italiana. Sopravvivere alla nostra storia, soprattutto se donne, ha richiesto per secoli soprattutto doti di resilienza, difficile diventare cuori di leoni in una stagione. Atti di “eroismo” individuale ci sono stati e (speriamo) ci saranno ancora, certo, ma il coraggio collettivo è un’altra cosa.

#Metoo è diventato però un movimento così ampio che deve poter comprendere tutto.
Le denunce personali, di episodi più o meno gravi,  devono convivere con le riflessioni politiche, più o meno incisive, superando il timore che, se si affronta una di queste prospettive, automaticamente l’altra verrà ridimensionata e svalorizzata. Perché #Metoo vada oltre la fiammata estemporanea e diventi sistema ci vuole una elaborazione politica forte, ma perché la fiammata non si spenga ci vogliono ancora storie personali, e denunce, tante denunce.
Due fronti che devono avanzare insieme, ma che qui, in Italia, sono ancora entrambi fragilissimi.

Occorre inoltre capirci bene sul significato che #Metoo sta via via assumendo. Iniziato come battaglia contro le molestie sul lavoro e contro l’abuso delle posizioni di potere degli uomini, #Metoo si sta allargando ad una contestazione più ampia delle molestie e della violenza contro le donne in generale.
In Italia, secondo l’Istat, una donna su 3 tra i 16 e i 70 anni (31,5%) ha subito una violenza o molestia sessuale. In tutto sono 6 milioni 788 mila. Lecito supporre che gli uomini autori di tali atti siano altrettanti, o poco di meno. In ambito lavorativo l’8,9% delle donne è stata molestata sul posto di lavoro. Un milione e 404 mila vittime.

Numeri enormi. Che però non dicono tutto. Non dicono della paura, dell’intimidazione collettiva, del senso di fragilità che ci accomuna tutte. #Metoo non riguarda infatti solo le vittime, ma tutte le donne.
Anche chi, come me, l’ha finora scampata.
Eccomi. Mi autodenuncio. Non sono mai stata molestata sul lavoro. Fortuna? Merito? Eroismo?
No. Solo fifa. Fifa blu.

Il mio rapporto con il potere maschile (familiare) è stato alimentato da un padre che mi ha sempre stimato, sostenuto, aiutato a crescere, offerto ogni opportunità di studio. Ci sono rimasta secca quando ho capito, all’università, che il rapporto con il potere maschile (professionale) poteva rappresentare anche una minaccia.
Sono stata colta totalmente impreparata, e mi è presa una paura inconscia, che, ho capito solo anni dopo, non solo mi ha fatto alzare delle solide barricate auto-protettive ma mi ha indotto spesso a scappare a gambe levate da situazioni che potessero essere anche solo velatamente ambigue.

Una paura che ha condizionato molte delle mie scelte di lavoro.
La mia prima rinuncia dovuta alla fifa è stata decidere di non chiedere la tesi sulla mia materia preferita. Il professore era il classico barone potentissimo. Chiacchierato. Che interrompeva la lezione per una bionda che entrava in ritardo in un’aula magna di 150 studenti, e se ne usciva con battutine che facevano ridere solo i maschi. Che all’esame mi aveva fatto capire che mi dava 29 invece che 28 in omaggio alla mia presenza (che era occhialuta, arruffata, monacale e sfinita dalla tensione. E meritavo 30, tra l’altro).
Ho optato, codarda, per la tesi con un professore integerrimo di una materia di cui non mi fregava niente.

Il barone l’ho rivisto 20 anni dopo, ad un convegno. Vecchio, curvo e mummificato. Sempre potente. Che si dava ancora di gomito con un collega pari grado, sghignazzando malizioso mentre indicava una studentessa incaricata di girare le slides. Carina nonostante il tailleur-pantalone nero auto-punitivo, tacco basso, senza trucco, i capelli raccolti nella crocchia, lo sguardo basso, mani giunte. Ferma. Seria. L’avrei voluta abbracciare e dirle di scappare da lì, trasmettendole la mia fifa, ma temo ce l’avesse già di suo.

#Metoo riguarda prima di tutto le donne vittime e gli uomini che le hanno molestate. Questa è, come dire, la prima linea di fuoco. Vero fuoco. Ustionante. Per la quale ci si può solo augurare che aumentino le denunce, le condanne, la solidarietà pubblica per le vittime.

#Metoo rappresenta però, nella sua profondità, una ridefinizione del rapporto di potere economico e sociale tra donne e uomini, e quindi ci riguarda proprio tutte/i.
Riguarda, anche se in modo diverso, pure me, che non ho niente di “reale” da denunciare se non la mia paura, che mi ha certamente “salvata”, ma che mi ha anche impedito di fare scelte che non saprò mai se sarebbero state più giuste o sbagliate per me.

Riguarda anche la studentessa di quel convegno, e mia figlia, e le sue amiche e tutte le altre ragazze di oggi, e di domani, che hanno il diritto di studiare e lavorare senza essere molestate, di fare carriera senza dover scegliere se pagare o meno pegno ma, soprattutto, devono poter decidere della loro vita senza fare i conti con questo tipo di paura.

#Metoo, in fondo, riguarda una battaglia di libertà.