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La difesa sottocosto delle donne vittime di violenza

di Elena Biaggioni e Giovanna Badalassi | 25 Novembre 2023

gratuito patrocinio

Quest’anno la ricorrenza del 25 novembre è davvero difficile: reduci dalla tragica sconfitta collettiva del femminicidio di Giulia Cecchettin, siamo, se possibile, ancora più insofferenti alla retorica.

Nel nostro piccolo, oggi abbiamo deciso quindi di essere invece molto pratiche e concrete e di parlare del (sotto) costo della difesa legale delle donne vittime di violenza, grazie a Elena Biaggioni, avvocata e amica di Ladynomics, che ci ha raccontato alcuni meccanismi, fragili e, ca va sans dire, discriminatori verso le donne, del nostro sistema giudiziario.

Intanto: quante sono le donne vittime di violenza che intraprendono un percorso processuale e quanto costa la loro difesa legale?

Le Forze dell’Ordine, secondo l’Istat, hanno presentato all’Autorità Giudiziaria solo nel 2021 denunce che hanno visto coinvolte 4.213 donne vittime di violenze sessuali, 6.652 donne vittime di percosse, 12.601 donne vittime di stalking. Se consideriamo la durata media dei processi giudiziari, possiamo farci subito un’idea di quante avvocate e avvocati sono coinvolti in questi tipi di processi. Una indagine di qualche anno fa sul costo economico e sociale della violenza sulle donne per WeWorld aveva stimato in 289,9 Milioni di euro per ogni anno il costi per le spese legali di questi casi.

Chi paga? In Italia, per fortuna, abbiamo una legge, quella sul gratuito patrocinio

in base alla quale è lo Stato che paga la difesa delle donne vittime di violenza, sia che il caso finisca con una assoluzione che con una condanna.

Nel caso del processo civile vi è un limite di reddito: si possono avere le spese legali pagate dallo Stato solo se la donna che subisce o ha subito violenza e si vuole separare ha dichiarato redditi annui pari o inferiori a  12.838€ ogni anno. Questo limite rappresenta un problema, dal momento che molte donne hanno redditi superiori, spesso anche di poco, a questo importo e non possono quindi affrontare con le proprie risorse il costo proibitivo di un procedimento civile. Per questo spesso rinunciano ad azioni lunghe e complesse a causa di una forte disparità economica dell’accesso alla giustizia rispetto ai mariti dai quali si vogliono separare.

Nel caso del processo penale l’accesso al gratuito patrocinio è invece a prescindere dal livello di reddito. Una volta informate di questa opportunità, le donne solitamente usano questo strumento e non devono pagare per la propria difesa, anzi: se una avvocata, già remunerata dallo Stato per questi casi, chiedesse un compenso alle proprie assistite, commetterebbe una violazione deontologica grave, così come anche non informarla di questa possibilità.

(Ndr: Da qui in avanti faremo un deliberato torto agli avvocati del gratuito patrocinio declinandoli anch’essi al femminile, per una volta, ma perdonateci, in questo settore la presenza di avvocate è davvero preponderante).

In Italia, si sa, i processi hanno tempi biblici, e per questo lo Stato anticipa alle avvocate i compensi del gratuito patrocinio prima della conclusione finale del processo.

Anche in questo caso, non è una buona notizia come sembra: questi anticipi sono calcolati su base forfettaria e slegati dalla quantità del lavoro effettivamente svolto dall’avvocata. Inoltre vengono di fatto liquidati dal giudice (cioè autorizzati) non a scaglioni al termine di ogni fase processuale, come previsto dalla norma, ma alla fine del processo di primo grado o di un eventuale appello. Dopo l’autorizzazione, le avvocate devono fare ancora una richiesta di pagamento al Tribunale e possono passare ancora mesi prima di vedere un bonifico.

Insomma, di anticipo c’è ben poco, e le avvocate lavorano senza essere realmente pagate per parecchio tempo, anche due anni e più dall’inizio del loro lavoro sul caso.

Alla fine di questo lungo procedimento, nei casi nei quali l’imputato sia condannato, il giudice o la giudice finalmente condanna l’imputato ad una pena ed eventualmente ad un risarcimento del danno e a rifondere le spese legali.

Il valore delle spese legali che il condannato deve rifondere allo Stato, e che questo poi paga alle avvocate delle vittime, è definito per legge ad un valore inferiore alle tariffe vigenti, circa un terzo in meno (Decreto del Ministro della Giustizia nr.55 del 10/03/2014).

Paradossalmente questo rappresenta quindi un vantaggio per il condannato in primo grado che può usufruire di un cospicuo sconto rispetto all’importo che avrebbe pagato per spese legali a tariffa piena.

Come si vede, c’è una evidente asimmetria tra quanto viene pagato il lavoro delle avvocate che difendono la vittima di violenza in gratuito patrocinio e gli avvocati che difendono gli imputati/condannati.

Nel primo caso, il compenso in gratuito patrocinio per un processo dibattimentale finisce per ammontare mediamente a 1.500€, massimo 2.000€ e retribuisce le avvocate in tempi biblici.

Nel secondo caso, l’avvocato dell’imputato/condannato, libero dai vincoli del patrocinio gratuito, può chiedere parcelle ben più redditizie e incassare i soldi dal cliente in tempi realistici.

Questa asimmetria dei guadagni ci è indirettamente confermata anche dal dato più generale della Cassa Forense, che per il 2023 ha stimato in 26.686 il guadagno medio annuo delle avvocate e in ben 56.768€ il guadagno medio degli avvocati.

Questa situazione incide anche sull’immaginario percepito:

essendo pagate così poco, le avvocate che difendono le donne con il gratuito patrocinio non sono valorizzate per una expertise comunque complessa e preziosa che combina la preparazione giuridica con la dimensione relazionale, psicologico e umano di situazioni davvero complicate.

Inoltre, proprio per questa asimmetria, le stesse donne vittime di violenza tendono spesso a sminuire la professionalità della loro avvocata, considerando più bravo l’avvocato dell’imputato, in quanto pagato di più e ritenuto quindi più “di grido”.

Chi glielo fa fare, quindi? Le motivazioni delle avvocate del gratuito patrocinio non possono essere certo quelle del guadagno.

Certo, è una scelta libera e autodeterminata: ogni avvocata è e resta una libera professionista che, spesso, decide di dedicarsi a questo tipo di cause per una forte motivazione anche politica, ma anche per una forma di dedizione a quella dimensione di cura che questi casi si portano sempre inevitabilmente dietro.

Ritroviamo quindi anche in questa professione il fenomeno di segregazione orizzontale tra avvocati di grido che monetizzano e avvocate che si impoveriscono perché più disponibili a fare un lavoro sottopagato. Con uno Stato che, ancora una volta, se ne approfitta di questa disponibilità, erogando un servizio che ha una componente di lavoro di cura non pagato e quindi non retribuendo adeguatamente l’esperienza, il tempo e la professionalità di queste avvocate.

È evidente, quindi, che il sistema del gratuito patrocinio è un meccanismo diabolico che voleva rafforzare la difesa delle donne vittime, ma di fatto finisce con l’indebolirla, poiché si traduce in uno strumento di impoverimento delle loro avvocate.

Quali le soluzioni possibili? Bisogna studiarle, ovviamente,

cercando modelli che funzionano meglio di altri, analizzando dati, statistiche, quantificando quanto il gratuito patrocinio costi allo Stato e quanto effettivamente recupera dai condannati, misurando quanto questi meccanismi e le disparità economiche incidono nell’accesso alla giustizia delle donne.

Ma soprattutto, e prima di tutto, le soluzioni, bisogna volerle.

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Foto di Tim Gouw su Unsplash