
In questi tempi squinternati e senili, tra guerre e crisi varie, stiamo pure assistendo incredule al balletto dei dazi, un giorno sì, un altro no, poi di più, forse di meno. Quale che sarà il risultato finale di questa negoziazione tra paesi, che assomiglia tanto alla caricatura di una partita di poker, è certo che qualcosa cambierà nei flussi di merci tra gli USA e il resto del mondo, Italia inclusa. Ed è altrettanto certo che anche le donne saranno coinvolte in questi cambiamenti a vario titolo. Proviamo allora a vedere come.
Dopo la Pink tax, ora pure le Pink tariffs per le donne americane.
Negli USA si sa già che parecchie merci importate dal resto del mondo verranno comunque a costare di più, anche se non si sa ancora esattamente di quanto. Questo aumento dei prezzi non sarà però omogeneo ed andrà a colpire alcune merci più di altre, soprattutto i prodotti comprati dalle donne che subiranno i maggiori rincari.
Il meccanismo è lo stesso delle Pink Tax delle quali abbiamo già parlato in altre occasioni, ma applicato ai dazi. Secondo l’Overseas Development Institute (ODI), infatti, i dazi americani attualmente esistenti sono già adesso più alti su abbigliamento e accessori destinati alle donne, si stima che arrivino in media al 16,7% per i capi femminili e al 13,5% per quelli maschili. Con le prospettive dei nuovi dazi questa Pink Tariff potrà solo peggiorare, dal momento che ci si aspetta l’aumento di prezzi su prodotti di largo consumo come abiti, cosmetici, articoli sanitari e per la casa – tutti beni di uso prevalente tra le donne, in particolare quelle a basso reddito. Una prima ipotesi parla di tariffe fino al 33% per i prodotti di abbigliamento destinati alle donne contro il 30% di quelli per gli uomini. Come ricordato da CNN Business, ci sarà un aumento dei costi per milioni di consumatrici americane, per un totale di due miliardi di dollari annui pagati in più rispetto agli uomini, con un impatto tanto maggiore quanto più basso sarà il reddito delle consumatrici.
Le Pink Tariffs colpiranno quindi indirettamente anche le donne che lavorano nel tessile dei paesi esportatori come il Bagladesh, il Vietnam o la Cambogia.
Si tratta di un vero e proprio effetto domino: se le americane acquistano meno prodotti, soprattutto tessili e per l’abbigliamento, vanno in crisi le aziende che li vendono. La World Bank in questo caso è chiara: meno esportazioni, meno occupazione nei Paesi produttori, precarietà in aumento per milioni di donne, dal momento che la manodopera femminile è largamente prevalente in questi settori. Certo, come abbiamo scritto i passato, la fast fashion prodotta in questi paesi ha dei costi umani, ambientali e sociali insostenibili, ma interventi di questo tipo sono traumatici e brutali e soprattutto, tanto per cambiare, colpiscono sempre le donne più fragili. In molti di questi settori– come il tessile e il calzaturiero – le lavoratrici rappresentano infatti oltre il 70% della forza lavoro, sono quindi le prime ad essere licenziate, quasi sempre senza alcuna rete di protezione.
Ma almeno, le Pink Tariffs potrebbero servire ad aumentare la produzione negli USA di questi beni, e quindi l’occupazione femminile americana?
No, pare manco questo.
Secondo un report del Budget Lab di Yale i benefici occupazionali promessi per spiegare la necessità di adottare i dazi, che dovrebbero spostare la produzione negli USA, non si concretizzeranno.
Le imprese americane, schiacciate tra la concorrenza globale e l’aumento dei costi, raramente assumono nuovo personale, che poi hanno pure difficoltà a trovare. È quindi più probabile che finiranno con l’assorbire l’impatto dei dazi riducendo i margini o automatizzato i processi, senza che i posti di lavoro “salvati” compensino quelli persi in altri paesi del mondo.
E invece, che impatto avranno i dazi americani sulle donne italiane?
Se negli Usa hanno cominciato a analizzare l’impatto delle Pink Tariffs sui prodotti di largo consumo, più complicato è capire l’impatto dei dazi sulle donne in Italia.
Essendo l’Italia un paese esportatore netto con gli USA (65 miliarti di euro di beni italiani venduti negli Usa nel 2024 con un surplus di quasi 39 miliardi) è chiaro che parecche aziende saranno in difficoltà. Secondo le prime proiezioni del Centro Studi della Camera di Commercio, riportate dal Correre della Sera, rispetto ai 65 miliardi esportati, alcuni settori saranno più colpiti di altri: “macchinari e impianti (12,4 miliardi), autoveicoli e altri mezzi di trasporto (11,1 miliardi), farmaceutica (8 miliardi), alimentari (4 miliardi), chimica (2,9 miliardi), bevande (2,6 miliardi), abbigliamento (2,4 miliardi). I settori più esposti in termini di flussi, invece, sono le bevande (il 39% delle esportazioni è diretto negli Usa), gli autoveicoli e altri mezzi di trasporto (30,7% e 34,0%) e la farmaceutica (30,7%)”.

Fonte foto: Corriere della sera
Per comprendere l’impatto dei dazi sull’occupazione femminile, occorre quindi andare a vedere
la presenza delle lavoratrici in questi settori economici in Italia, per capire quante sono a rischio.
Si tratta ovviamente di una proiezione a spanne, ma che ci è comunque utile per avere una idea delle proporzioni.
Analizzando i dati INPS del 2023, vediamo che in questi settori economici lavorano donne per il 38% del totale dei dipendenti di aziende private. Ovviamente solo alcune di queste esportano negli USA, ma possiamo verosimilmente ipotizzare che la proporzione femminile sia simile.
La prima cosa che si osserva
è che in generale l’impatto occupazionale dei dazi è in assoluto maggiore per gli uomini che per le donne, come ci si poteva aspettare considerando che sono colpite dai dazi le aziende manifatturiere, dove gli uomini sono presenti in generale per il 71,1%.
La seconda cosa che emerge
è che le donne che lavorano nei settori delle aziende che esportano negli Usa forse corrono qualche rischio in più delle altre occupate nel manifatturiero, dal momento che il 38% del tasso di femminilizzazione dei settori economici coinvolti dai dazi è maggiore di quel 28,9% che rappresenta la percentuale media di donne nel settore manifatturiero nel complesso.
D’altronde è normale, se pensate che tra i settori più esposti ai dazi ci sono quelli riferiti ai beni di largo consumo, come le industrie dell’abbigliamento, nei quali lavorano donne per il 66,1%, quelle tessili (48,7%), per la fabbricazione di articoli in pelle e simili (49,6%), farmaceutiche (44,9%).

Fonte: Ns Elaborazione su dati Inps, numero lavoratori dipendenti per sesso e per divisione economica Ateco 2007 anno 2023. Ripartizione percentuale
E quindi sì, un po’ le pink tariffs colpiranno anche l’occupazione femminile della nostra industria tessile e alimentare orientata all’Export negli Usa.
In che misura è ovviamente ancora tutto da vedere, ma è pur sempre meglio esserne consapevoli per stare un po’ in campana, no?
Questo tipo di analisi di impatto di genere ci conferma, ancora una volta, che nessuna decisione politica è neutra rispetto all’impatto della vita su donne e uomini, e che è bene imparare a riconoscerlo in ogni situazione. Certo, nessuna di noi da sola ci può fare niente, ma é importante acquisire la consapevolezza collettiva che persino le politiche commerciali internazionali hanno conseguenze sulla vita delle donne, non solo nei paesi del terzo e del quarto mondo, ma anche nel nostro. Anche in questo modo si può migliorare la qualità del dibattito pubblico e contribuire così a migliorare la nostra democrazia.
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