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#1Maggio: Sì, ci stanno proprio facendo la festa

di Giovanna Badalassi | 1 Maggio 2025

Ed eccoci ancora una volta qui, a parlare di lavoro per il #1maggio, una ricorrenza che, a definirla “festa”, ci viene anche un po’ da ridere, soprattutto a noi donne, vero? Chissà come mai..

Comunque, come ogni anno, un velocissimo ripasso, giusto per chi si fosse ancora persa qualcosa:

In Italia lavoriamo (pagate) in 10,168 milioni circa di donne (Istat, 2024)

Il nostro tasso di occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni, il 53,3% nel 2024 (Istat), è l’ultimo nell’Unione Europea, e dire che siamo un un paese che fa parte del G7, quindi sta tra i primi sette paesi più industrializzati del mondo. Non vediamo molta preoccupazione generale per questo dato, né una particolare ansia di cambiarlo. Eppure, è già stato spiegato in mille modi che più occupazione femminile significa non solo stipendi, famiglie con più soldi, tasse e contributi pagati, ma anche più PIL.

Ci sono, poi, altre 7,3 milioni di casalinghe che lavorano gratis in casa (Istat, 2016).

Facendo il conto in ore, tutte le donne fanno in tutto 50,69 miliardi di ore di lavoro non pagato, il 71% del totale, il resto gli uomini. Di queste, 20,35 miliardi di ore le producono le casalinghe a tempo pieno, 13,71 miliardi di ore le lavoratrici e 11,68 miliardi le pensionate.

Per quelle che uno stipendio, o almeno una parvenza di stipendio, ce l’hanno, il lavoro non è proprio una passeggiata:

L’incidenza dei dipendenti a bassa retribuzione (sotto 8,9 euro l’ora) è pari al 12,2% delle donne contro 9,6% degli uomini. Quelle obbligate al part time, e che quindi vorrebbero un full time anche solo per uno stipendio decente, sono 1,8 milioni (gli uomini sono 849mila, Istat, 2020). Oltre al gender pay gap, che nel privato arriva al 15,9% (ISTAT, 2022), il lavoro femminile è anche penalizzato dal fatto di essere concentrato soprattutto nei settori economici peggio pagati, ovvero quelli legati alla cura, alla quale si riconosce spesso un valore economico ai limiti del simbolico.

Se poi le lavoratrici non hanno studiato, va ancora peggio: tra le donne con un’età compresa tra i 25 e i 49 anni lavorano per il 41,1% se hanno un livello di istruzione della scuola dell’obbligo, per il 63,1% se hanno un livello di istruzione secondario superiore, per l’81,1% se hanno la laurea o titolo superiore (Eurostat, 2023). Con i figli, e all’aumentare del numero dei figli, tutto ovviamente peggiora.

Anche le lavoratrici in corsa per la carriera non se la passano benissimo,

pressate per ogni dove, alle prese con una conciliazione impossibile, discriminazioni varie, mansplaning, e quant’altro, e comunque sono ancora pochissime: 201mila tra donne dirigenti e imprenditrici contro 556mila uomini (Istat, 2024).

Di fronte a questo quadretto, giusto abbozzato, il futuro…boh?

I settori economici sui quali gli stati, a partire dalla UE, intendono investire nei prossimi anni non riguardano certo la cura e il welfare, dove le donne lavorano di più, mentre sono presenti in percentuali minime in settori come ad esempio la difesa, l’intelligenza artificiale, l’ICT o la robotica.

La consolazione del: “ma con una adeguata formazione anche le donne possono lavorare in questi  settori” può funzionare a livello individuale ma certo non nei numeri complessivi e, soprattutto, non in tempi ragionevoli.

Che fare, quindi? Tolta la resa e la fuga all’estero, rimane una sola possibilità: ritrovare una identità collettiva che promuova e difenda il lavoro femminile.

Il che vuol dire ripartire da dove abbiamo lasciato nei primi anni 80, quando è finita la stagione dell’impegno comune per i diritti ed è iniziata quella della crescita individuale delle donne nel lavoro. Per un po’ siamo andate tutte avanti da sole in ordine sparso, ma, lo stiamo vedendo, oggi i tempi sono davvero cambiati e ci troviamo in una situazione economica e lavorativa totalmente diversa.

Anche noi donne, allora, dobbiamo cambiare, unendo le forze, fare massa critica e tutelare i bisogni di tutte, perché sono anche quelli di ciascuna. Certo, è difficile e faticoso per molte (ri)costruire nuove modalità di relazione, fare gruppo, proposte e sintesi condivise, ma non ci sono alternative, se vogliamo qualcosa di più e di meglio. Nei prossimi anni sarà quindi sempre più indispensabile sfruttare ogni occasione di partecipazione a tutti i livelli, da quello intraziendale e sindacale a quello associativo fino ad arrivare (tenetevi forte) alla partecipazione politica.

Si, il nostro lavoro lo possiamo salvare e renderlo degno di questo nome solo passando attraverso la politica,

usando per una volta quel voto che è l’unico potere davvero paritario del quale disponiamo e che ha la possibilità di influenzare in modo determinante anche l’economia, e quindi pure il nostro lavoro, come le elezioni presidenziali USA stanno mostrando.

Dopo il crollo dell’economia comunista e conseguente tramonto dello stato-regolatore, per anni hanno avuto la meglio le teorie liberiste che volevano un mercato assistito da uno stato-arbitro che interveniva il minimo e lasciava scatenare la concorrenza.

Non è andata proprio così, lo Stato in realtà c’è sempre stato nell’economia occidentale e anche italiana, ottimo ed abbondante, condizionandone l’andamento e, quindi, influenzando, anche il lavoro di noi donne.

Al punto che, oggi, assistiamo, nell’incredulità (e choc) generale, allo spettacolo di un Presidente americano, evidentemente alzatosi male una mattina, che tira fuori dal cilindro dazi all’impazzata e manda a picco le borse mondiali, così, in barba ai pesi e contrappesi della democrazia, innescando ripercussioni sul lavoro, anche quello delle donne, tutto ancora da capire.

Quindi si, quello che fa e non fa lo stato è fondamentale per il lavoro, soprattutto quello femminile.

Non si tratta soltanto del pubblico impiego, dove comunque lavorano quasi due milioni di donne, ma anche del quadro regolamentativo e degli investimenti pubblici che tanto impatto possono avere sul lavoro, di solito soprattutto maschile, come la vicenda del PNRR ci ha insegnato.

Lo stato, tra le altre cose, decide anche quanto deve essere retribuito il lavoro di milioni di donne, basti pensare agli stipendi della sanità, dell’istruzione o della cooperazione, e decide anche quel limite della decenza e della dignità, anche la nostra, che include una paga dingitosa, un minimo di stabilita, il contrasto al lavoro nero, all’evasione, al nepotismo e alla corruzione.

E..sorpresa, che tipo di stato avere e cosa deve fare lo decidiamo noi cittadine e cittadine quando votiamo e prima ancora quando partecipiamo.

Vogliamo davvero un lavoro migliore?

Ci tocca allora diventare elettrici migliori.

Proprio strani questi tempi, vero?

Allora…buon #1maggio!

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Foto di Josh Howard su Unsplash